Partiamo dal titolo, è raro che lo faccia, ma stavolta vorrei iniziare così perché mi sembra un buon punto per dirvi le mie impressioni su questo romanzo di Amitav Ghosh: “Pensai con meraviglia che c’era stata veramente un’epoca in cui delle persone avevano creduto che le carte geografiche potessero essere tutte uguali, che nelle linee ci fosse un incantesimo particolare … non li si poteva biasimare per aver creduto che fosse un’ottima soluzione respingere la violenza dentro i confini e affrontarla per mezzo della scienza e delle industrie … Avevano disegnato i loro confini, forse sperando che, una volta tracciati sulla carta, le due parti di territorio sarebbero scivolate lontane l’una dall’altra … Che cosa avevano provato scoprendo di non aver creato una separazione bensì un’ironia ancora sconosciuta … Il semplice fatto che nella storia non c’era mai stato un momento in cui i luoghi conosciuti come Dacca e Calcutta fossero stati più strettamente legati tra loro di quanto lo fossero dopo che quelle linee erano state tracciate” (pag. 292-293).
Siamo in India, nei primi anni nella decade del 1960, cruenti scontri dilagano tra la gente, l’Inghilterra comincia a perdere il suo dominio coloniale, il Pakistan lotta per la sua indipendenza e secessione politica dal governo indiano, le divergenze religiose tra indù e musulmani sono pretesto per favorire l’espandersi della ferocia reciproca. E Ghosh si concentra sulle linee geografiche, che contengono in sé qualcosa di magico nella speranza che un atto burocratico possa determinare una fine netta e definitiva al sangue della povera gente sparso con i tumulti nelle strade. L’illusione che la politica possa risolvere quello che l’animo umano agita e, soprattutto, nascondere la polvere sotto il tappeto. Probabilmente faccio queste considerazioni perché vivo in un paese come l’Italia e, senza andare troppo lontano, a distanza di cinquant’anni dagli episodi raccontati nel romanzo, pensare a cosa succede tutti i giorni, e come sia possibile ascoltare un telegiornale, aprire le pagine di un quotidiano a caso per capire come le notizie in primo piano siano altre.
In medio stat virtus si dice, perciò siamo noi ad esserci abituati a sentire parole vuote per non appesantirci la testa con pensieri che altrimenti non ci lascerebbero indifferenti, oppure con semplicità diamo la colpa agli altri per non essere capaci di governare un paese che sta andando a rotoli? Vi rispondo con le parole di Ghosh: “Questi altri eventi, invece, possiamo descriverli soltanto mentre accadono, e poi tacere perché cercare parole di altra natura implicherebbe attribuire loro un senso, ed è un rischio che non possiamo correre più di quanto possiamo permetterci di prestare ascolto alla pazzia.” (pag. 286)
E voi cosa ne pensate?
“Le linee d’ombra” di Amitav Ghosh, ed. Neri Pozza, pag. 320, € 12.50
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